[…] Infatti era da poco terminata la guerra, in tutti c’era vivo il desiderio di ritrovare gli amici e con essi di ricostruire tutto quello che la guerra aveva distrutto e, come motivo, anche dimenticare le tristi vicende ricreando quel clima nostrano d’un tempo di cui si erano affievoliti i ricordi.

Così, nel piccolo locale di Pepén in Borgo S. Ambrogio, tra le tante idee che vecchi amici ebbero, prese piede quella di creare anche a Parma una “Famìja” a somiglianza di quelle di Milano, Torino, Bologna. Fine primario: tenere vivo l’amore per le arti, per le tradizioni, per il folklore e in genere, per ogni iniziativa che comunque elevasse il prestigio delle città, non ultima, la beneficenza. Il tutto nel pieno disimpegno da ogni ideologia.


Un programma di puri idealisti, quanto ad amore per Parma. Del resto, ciò rispecchiava perfettamente il carattere dei parmigiani.

I precursori, stando alle notizie raccolte, furono, in ordine alfabetico, Adolfo Caleffi, i fratelli Italo, Giulio, Giuseppe e Luigi Clerici, Ninetto Favalesi, Mario de Marchi, Gino Preti, Alberto Rampini, Ugo Ricò, Annibale Terzi, Elvezio Valli, Giorgio Vanono e tutti gli abituali frequentatori del bar di Pepén Clerici, che doveroso dirlo, contribuirono in misura diversa all’iniziativa.


Si trattava di realizzare una forma societaria nuova i cui termini statutari erano già abbastanza controversi tra gli stessi promotori.
A modo di proclama era stato esposto un foglio su una colonna (o meglio, era stato incollato) e chi credeva, poneva la propria firma di adesione. Purtroppo di quel documento di interesse pittoresco non c’è più traccia, perché finito probabilmente tra i calcinacci quando è stato restaurato il locale.

Tratto da “50 Anni della Famìja Pramzàna” di Renzo Piazza (1997)